
Quando Marion Jones taglia per prima il traguardo dei 100 metri, in Italia è mattina. Sarà la sua quinta medaglia (e la terza d’oro) al termine delle Olimpiadi di Sydney 2000. Conservo di quei Giochi nell’altro emisfero una memoria vivida e luminosa, di grandeur e bei tempi andati: gli orari sballati, ogni tipo di sport in ogni momento del giorno, come un infinito buffet da villaggio turistico per cui per la prima volta avevo il mio braccialetto adulti.
Eppure, nonostante avessi seguito la progressione francamente incredibile di Marion Jones, il ricordo di quelle vittorie è inevitabilmente appannato, come se la giustizia sportiva fosse riuscita nella maledizione della damnatio memoriae, cancellando retroattivamente quella percezione di invincibilità e dominio assoluto.
Ogni caso eclatante di doping, come quello sul Clostebol per quanto riguarda Sinner o l’oscura spy story della staffetta italiana – per citare solo quelli coperti persino dalla tv generalista in questi giorni – sembra rimarcarne lo status unico: che sia un’accusa, un sospetto, una squalifica, o un accertamento di responsabilità, non si può parlare di doping senza un côté di contrizione e indignazione. Il solo accostamento di un atleta alle attenzioni dell’anti-doping è preceduto da balletti di maniavantismo o esercizi di virtue signalling, perché doparsi equivale a varcare un confine morale, e impone un tipo di condanna che non attribuiremmo mai a una violazione di altre regole, scritte o non scritte, proprie di una disciplina sportiva.
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Il portiere che tocca di mano fuori dall’area sarà al massimo “scarso” (ha infranto il regolamento, verrà sanzionato con la sua squadra), o “furbo” se perde tempo nel rinvio (ha piegato un po’ le regole, in quella che viene definita gamesmanship, e potrebbe anche farla franca), ma in nessuno dei due casi è moralmente paragonabile all’atleta che si sporca le mani, a qualunque livello, con il doping. Il doping è di per sé riprovevole: un trucco, un imbroglio, la disonestà assoluta. Non sono qui per negare completamente questa “intuizione morale”, ma per dire che la questione della lotta al doping è ben più ambigua e sfuggente di quanto vogliamo raccontarci. Lo vediamo ogni volta che un grande caso ci invita a informarci più in profondità, mostrando le sfumature e le crepe di un tema meno monolitico di quanto viene presentato nel racconto mainstream.
È un tema sfuggente: sia dal punto di vista pratico (della giustizia sportiva) sia concettuale (filosofico e antropologico): cos’è esattamente doping, perché è sbagliato, e perché dovremmo punirlo?
Le definizioni più familiari e meno sofisticate di doping fanno riferimento "all’uso da parte di un atleta di una sostanza illecita, di una droga o di una pratica medica a scopo non terapeutico, ma finalizzato al miglioramento dell'efficienza psico-fisica durante una prestazione sportiva (gara o allenamento), agonistica e non". L’inadeguatezza di questo tipo di formulazioni da dizionario, però, è evidente già a una prima rilettura: lo sport contemporaneo è invaso di pratiche e sostanze mediche utilizzate in senso non strettamente terapeutico, dalle diete ai mental coach e alle camere iperbariche, tanto che questa definizione di doping risulta tanto concettualmente vaga quanto fastidiosamente inapplicabile. La WADA stessa – World Anti-Doping Agency, teoricamente la massima autorità di riferimento in materia – si tiene ben lontana da ogni caratterizzazione che non sia puramente formale, bollando come doping, in apertura del suo Codice “as the occurrence of one or more of the anti-doping rule violations set forth in Article 2.1 through Article 2.10 of the Code”. In pratica, è doping quello che nel Codice viene definito come doping, in un capolavoro di ragionamento circolare, o come una tautologia che però – attenzione – va continuamente aggiornata, visto che protocolli, dosaggi e nomi di farmaci vengono periodicamente aggiunti o modificati nel codice stesso.
Il costo dell’implementazione delle misure anti-doping, la loro spesso evidente inefficacia e scarsa trasparenza, le ricadute economiche, sportive e anche psicologiche impongono però una risposta meno elusiva. Il primo candidato a una definizione “sostanziale” di doping, nella letteratura scientifica e non che se ne è occupata negli ultimi decenni, sembra essere la distinzione naturale/artificiale. Secondo le teorie più tradizionali e antiche della pratica dello sport, la competizione sportiva si dovrebbe basare su un confronto tra le abilità e i talenti degli atleti, premiando così un’eccellenza naturale, che il filosofo Robert Simon associa all’areté aristotelica. L’uso di sostanze o trattamenti dopanti inquinerebbe quindi questa competizione equa, introducendo vantaggi ingiusti e in qualche modo immeritati.
Se questa distinzione potrebbe almeno a prima vista fornire una risposta a cosa si caratterizzerebbe come doping, non sembra rispondere alla domanda del perché dovrebbe essere però moralmente sbagliato. In che cosa i vantaggi “naturali” sarebbero più “meritati” e “giusti” di quelli economici, sociali, o culturali? Se vincere la lotteria genetica è comunque questione di fortuna, perché dovrebbe essere scorretto un tentativo di riequilibrarne gli esiti ricorrendo all’allenamento, alla medicina, alla tecnologia? In un paragone non troppo peregrino, nella misura in cui gli atleti sono dei supereroi, perché Batman, il cui superpotere è l’essere un milionario un po’ in fissa con la palestra, non dovrebbe poter competere con Spiderman? Secondo alcune teorie più radicali, come quella dell’apologeta dello “human enhancement” e bioeticista Julian Savulescu, ogni pratica di bio-hacking e auto-miglioramento, incluse quelle mediche e genetiche, è non solo moralmente legittima ma perfino, in quest’ottica di livellamento, auspicabile.
La distinzione naturale/artificiale, però, al di là del suo aspetto più filosofico e morale, è problematica anche quando applicata a ciò che sembra più “naturale” in senso immutabile e determinista, il corredo genetico. Eero Mäntyrana, leggendario sciatore di fondo finlandese, la cui statua svetta nella nativa Pello proprio come quella di un supereroe nella posa classica del fondista a braccia distese, è l’atleta più vincente di sempre in questa disciplina. Dopo alterne vicende, analisi e sospetti, che coinvolsero altri membri della sua famiglia estesa, molti dei quali atleti di successo, a Mäntyrana fu diagnosticata la Primary Familial and Congenital Polycythemia (PFCP), una rara condizione genetica che causa un alto livello di ematocrito nel sangue, a sua volta dovuto a una mutazione del gene recettore dell’eritropoietina (EPO).
Se alcuni di questi termini vi risultano familiari, non è perché siete poco esperti di ematologia: la famigerata EPO è responsabile della regolazione di globuli rossi ed emoglobina, che aumentano la capacità di condurre ossigeno e quindi la resistenza allo sforzo aerobico. Distinguere tra la proteina EPO di produzione naturale e quella sintetica è però impossibile, quindi i test anti-doping non sono in grado di discriminare tra un vantaggio competitivo “naturale” (e quindi più legittimo? O meritato?) e uno ottenuto in altro modo.
In tempi più recenti, le controversie sugli atleti intersex o transgender hanno definitivamente fatto cadere la foglia di fico (pun not intended), lasciandoci con la domanda, a cui la scienza di per sé non può rispondere, di quali vantaggi “biologici” dovremmo considerare leciti e quali illeciti. Ogni tentativo di definire la “natura” umana, lo “spirito” dello sport e l’”essenza” della competizione sembrano scontrarsi con questo dilemma di fondo. Perché riteniamo alcune pratiche di auto-miglioramento, ricerca scientifica, investimento economico, tecnologia – tutti vantaggi competitivi, non accessibili a tutti, di per sé discriminatori – moralmente perseguibili e implementabili? Come il filosofo dello sport John Murray conclude: "Doping è l’equivalente morale dell’usare altre tecnologie applicate allo sport, oppure a interventi medici che sono largamente accettati nello sport (come per esempio scarpette da corsa ammortizzate, racchetta da tennis in grafite o la chirurgia agli occhi). Se siamo disposti a permettere questi vantaggi, allora è irrazionale vietare l’uso di sostanze che migliorano le prestazioni".
Per chi è arrivato fino a questo punto, sarà forse di sollievo la scoperta che non tutte le teorie filosofiche, antropologiche e sociologiche dello sport si dedicano a un’analisi “essenzialista” della sua natura, spirito, o essenza. I cosiddetti “esternalisti”, che studiano lo sport come una particolare espressione di fenomeni, pratiche sociali e rapporti di potere più ampi, ne danno una caratterizzazione più formale: uno sport è semplicemente definito come una serie di regole e convenzioni. Se fare più di due passi con la palla in mano è vietato nel basket, non è per via della “natura” ineffabile o filosofica del basket, ma perché il regolamento così prescrive; allo stesso modo, la violazione del codice WADA è sanzionabile e sanzionata secondo lo stesso principio di arbitrarietà e convenzionalità.
Queste considerazioni sgombrano il campo da qualunque valenza morale insita nel doping, e pongono piuttosto l’accento su vantaggi competitivi che devono essere, almeno nel rispetto formale del regolamento, uguali per tutti: come nel caso dei “super costumi” Jacked, possiamo decidere che una gara o uno sport siano più godibili, appassionanti e interessanti senza un ausilio tecnologico che migliorerebbe le prestazioni, per ragioni di valore intrattenimento: semplicemente per rendere il raggiungimento dell’obiettivo proprio di una disciplina più difficile, il che però, se ci pensiamo, è quello che rende un gioco divertente. In questo senso, se alcune – o tutte? – le forme di doping venissero legalizzate, il problema cesserebbe semplicemente di esistere, senza nessuna implicazione etica, come una riforma del regolamento sui toilet break, dal momento che tutti gli atleti ne avrebbero accesso. Per le stesse ragioni di intrattenimento, potremmo trovare interessante scoprire quanto in alto può saltare un atleta con un arto in carbonio, o sottoposto a terapie genetiche che ne aumentino l’elasticità o esplosività muscolare.
Le Olimpiadi del Doping, come vengono chiamati gli Enhanced Games (di cui si è già parlato su Ultimo Uomo), marciano a grandi passi in questa direzione, come un festival musicale in cui le esibizioni dove l’autotune regna sovrano, perché è più piacevole, più appagante, o vende più biglietti. Come Haidt ci ricorderebbe, non senza qualche soddisfazione, alcune intuizioni morali, per quanto radicate, forti e “immediate”, possono essere sbagliate e immotivate, se non resistono allo scrutinio della ragionevolezza e della coerenza argomentativa, e quella sul doping potrebbe rientrare nella categoria “da aggiornare”.
Ci sono poi altre motivazioni per mantenere illegali alcune forme di doping, e la prima è sicuramente la sicurezza degli atleti. Sostanze o trattamenti dopanti sono spesso molto dannosi per la salute di chi vi fa ricorso. Anche qui, prendersi dei rischi è considerato del tutto normale, e persino lodevole, o intrinseco nello spirito di svariate discipline sportive, senza arrivare ai casi emblematici degli sport estremi. Misure di sicurezza e divieti specifici sono però comunemente inseriti nei regolamenti, senza altro scopo che quello di ridurre i rischi dall’alto, ed evitare che gli atleti siano incentivati a prendersene sempre di più per aumentare la propria competitività. L’anti-doping potrebbe in questo senso configurarsi come una sorta di argine esogeno a una corsa agli armamenti medica e tecnologica, con tutte le contraddizioni e le necessità di bilanciamento in un contesto, come quello sportivo, in cui comportamenti e prassi pericolosi sono abbondantemente accettati se non glorificati.
Un secondo ordine di giustificazioni potrebbe anche essere quello di limitare il vantaggio di atleti o federazioni con più potere economico alle spalle, con quindi più facilità di accesso a tecnologie più innovative o costose. Come in altri casi, anche per il doping si tratterebbe di prendere una decisione arbitraria e caso per caso, dal momento che queste diseguaglianze erodono già l’utopia del “level playing field” che molti “essenzialisti” vorrebbero difendere.
A fronte di un dibattito antico quanto lo sport, attorno a cui però ruotano ora interessi e capitali enormi, e in cui una sentenza o un sospetto possono cambiare le sorti di molte carriere, il mondo dell’anti-doping è sempre rimasto in superficie: inadeguato sia nell’implementazione di regolamenti e punizioni, spesso poco trasparenti e “accountable”, sia nella costruzione di un orizzonte teorico ed etico entro cui discutere della natura e della inevitabile arbitrarietà del doping stesso.
Se le Olimpiadi del doping rimangono forse una boutade alla Trump, resta urgente spogliare il discorso dell’alone di stigma morale che lo circonda, o quanto meno metterla tra parentesi quando è necessaria una riflessione sistemica, visto che il rischio è che inibisca un approccio pacificato, maturo e razionale.